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venerdì 20 marzo 2020

Emergenza e pieni poteri *

Come tutelare la nostra democrazia costituzionale dalla pandemia? Anzitutto riconoscendo lo stato di necessità nel quale siamo precipitati, ma negando al tempo stesso ogni possibile generalizzazione.
Lo stato d’eccezione non è il paradigma fondativo le nostre comunità politiche, non è la regola, non può neppure essere legittimato come strumento di governo, deve invece nei limiti del possibile essere circoscritto. Se, infatti, non si può negare che la necessità “di fatto” assurga a fonte autonoma qualora provvedimenti siano necessari per fronteggiare esigenze improvvise e imprevedibili che mettono in discussione l’esistenza stessa dello Stato e della comunità di riferimento, non si deve accettare che terminato lo “stato di necessità” la rottura delle regole prosegua. In alcuni casi è la stessa costituzione a indicare i limiti dell’eccezione, in altri tutto avviene fuori da ogni previsione normativa, nel vuoto delle norme.

Così mentre la nostra costituzione prevede espressamente che si possano limitare le libertà di circolazione e di riunione per motivi di sanità, sicurezza o incolumità pubblica, essa appare più indeterminata sugli strumenti e i modi per far concretamente fronte ad una tale evenienza. Stabilisce – all’articolo 16 – che sia la legge in via generale a porre limiti, ma quali siano le specifiche misure da adottare non può essere stabilito “in via generale”.


Per questo si espande la responsabilità del Governo il quale dovrà adottare i provvedimenti necessari. Nel caso del Coronavirus l’attuale esecutivo ha adottato una serie di decreti legge (atti aventi forza di legge), ma, soprattutto, ha definito le specifiche norme di attuazione – legittimate non dalla costituzione bensì dallo stesso decreto – con una serie di Dpcm, ovvero atti cui è responsabile il Presidente del consiglio dei ministri, sentiti altri responsabili politici (ministri o presidenti di regione), senza alcun intervento formale né del presidente della Repubblica, che non emana tali atti, né del Parlamento, che non converte simili decreti.
Dunque, una piena e solitaria assunzione di responsabilità politica del Presidente del consiglio in carica in materia di diritti fondamentali del cittadino.
È una prassi conforme a quanto la costituzione ha stabilito? Direi di no. Sono atti illegittimi? Anche in questo caso darei una risposta negativa. È l’autoassunzione di un potere extraordinem che si legittima per via di necessità. Posta in questi termini credo si comprenda bene come non si possano sottovalutare né le esigenze che muove il Governo a salvaguardare la salute pubblica in una situazione di fatto di estremo pericolo, né la necessità di delimitare il più possibile – nel tempo e nel contenuto – le deroghe o le sospensioni della legalità ordinaria.
Anche il Parlamento è sotto shock e sta adottando misure di necessità. La distanza tra quel che dovrebbe fare e quel che può fare è abissale. La costituzione assegna proprio alle Camere il controllo e le decisioni finali negli stati di emergenza, ma in questo momento appare paralizzato, avendo stabilito di sospendere le sedute, non riuscendo neppure più a votare in fretta a furia i provvedimenti necessari per far fronte alla pandemia.

Si possono criticare le decisioni organizzative assunte che appaiono del tutto arrese difronte ai pur sconvolgenti avvenimenti (lo ha fatto su queste pagine Massimo Villone e dunque non vi torneremo), ma quel che ancor più preoccupa è l’idea che si sta diffondendo: che in fondo dalla tragedia si può uscire con nuove e più efficienti regole che valgano anche per il futuro, nell’ordinaria amministrazione.


È il caso esemplare del voto a distanza. Personalmente credo che anche in questa fase di necessità si possano trovare modalità organizzative per assicurare un voto in presenza garantendo tutte le misure di sicurezza necessarie (voto scaglionato e tempi dilazionati), ma non è questo il problema di fondo: ammesso che si ritenga che lo stato di necessità imponga una tale misura, bisognerebbe almeno riconoscere che si tratta di una deroga legittimata dallo stato di necessità, non certo una regola da introdurre per migliorare l’efficienza dei lavori del Parlamento.
In fondo – se così ci si dovesse orientare – vista la “necessità” e considerata la natura dell’organo, sarebbe essenziale che fossero i Presidenti della Camere, in accordo con tutti i gruppi, sentiti gli uffici di presidenza, che autorizzassero la deroga in via d’eccezione, ribadendo di fatto in tal modo la legittimità delle attuali diverse normative previste dai regolamenti parlamentari.
Insomma, il pericolo più grave in questa situazione è che qualcuno possa pensare che si possa in fondo proseguire anche cessato lo stato di necessità, magari teorizzando uno stato d’eccezione permanente.
Vorrei essere chiaro sul punto: un Governo (fosse anche con l’appoggio del Parlamento) che adottasse misure simili a quelle attualmente assunte in assenza di pandemia e in materie che non implichino la salvaguardia del diritto fondamentale alla salute (ma anche “interesse della collettività” scrive la costituzione) porrebbe in atto fatti eversivi della legalità costituzionale.

Nessuna assimilazione è possibile tra l’attuale eccezionale stato di necessità e le ordinarie crisi perpetue o le emergenze perenni cui siamo abituati in tempi “normali”. Riconoscere, limitare e circoscrivere gli stati d’eccezione per evitare che qualcuno si senti autorizzato, “passata la peste”, ad utilizzare gli stessi mezzi per affrontare la crisi economico sociale – chessò in materia di migrazioni – ponendo così in essere un colpo di stato permanente.


Nella Roma antica, com’è noto, esisteva una figura giuridica che permetteva di salvare la Repubblica nelle situazioni in cui era messa in gioco la sua sopravvivenza. Il Senato trasferiva tutti i suoi poteri ad un soggetto per un massimo di sei mesi. Poi, cessato il pericolo, ma anche solo trascorso invano il tempo definito, nessuno era più autorizzato a porre in essere atti “dittatoriali”.
Quando qualcuno (Silla prima, Cesare poi) pensarono di estendere lo stato di emergenza e si fecero confermare oltre il tempo i pieni poteri ecco che la dittatura da “commissaria” si fece “sovrana”, e la Repubblica capitolò. Ancora oggi è questa la sfida più grande. Se infatti adesso sopportiamo limitazioni di libertà disposte in piena e solitaria responsabilità dal Governo pro tempore in carica, lo facciamo per necessità, avendo ad esso trasferito di fatto i poteri sovrani.
Consapevoli però che se dopo aver sconfitto il terribile e invisibile nemico non si dovesse tornare alla normalità rischieremmo di precipitare nel buio della Repubblica.

* Gaetano Azzariti, tratto dal «Manifesto» del 19/03/2020 disponibile qui https://ilmanifesto.it/i-pieni-e-solitari-poteri-del-capo-del-governo-extraordinem/

mercoledì 30 ottobre 2019

Il «duello» nel dibattito che non c'è

Piccola premessa
Chi ha detto che la filosofia è inutile? Probabilmente qualche Presidente di qualche stato latino americano lusofono in odor di potere assoluto, o di qualcun altro evidente estimatore di Pinochet (per quel che sta succedendo in Cile: https://www.facebook.com/TomasHirschDiputado/videos/933282370390086/). Chi si scaglia contro l’inutilità della filosofia non è qualcuno che ha compreso la vera essenza della materia individuandola nell’inutilità della stessa, piuttosto ha compreso la portata rivoluzionaria di un modus pensandi che potrebbe far crollare le fondamenta del proprio potere costituito sul terrore o su di una evidente mancanza di democrazia. Una nazione retta in modo a-democratico (con tanto di alfa privativo) evidentemente pone se stessa in opposizione al concetto di Stato giustificandone, tuttavia, la giustezza del proprio sistema. Così i dittatori nazifascisti assumevano il controllo dello Stato con la forza per fare in modo di poter governare per il bene di tutti: le funzioni vitali della Nazione potevano essere subordinate per un bene più grande, quello della salvezza dello Stato, così allo stesso modo le libertà del popolo, degli elettori o dei cittadini, com’è in voga determinare ultimamente il corpo sociale.
Oltre agli esponenti politici sopra citati, ci sarebbe da aggiungere all’elenco anche coloro i quali ritengono che il mondo possa essere determinato dalle regole dell’economia e si affida ciecamente ad economisti per prevedere il futuro dello sviluppo economico del Paese (così come le tendenze macroeconomiche) salvo poi scoprire che i numeri sono sempre implacabilmente gli stessi: +0.x o -0.y, dunque conta davvero molto poco.

Fenomenologia del dibattito politico
Eppure il dibattito politico si serve costantemente della filosofia, certo non dandogli pacche sulle spalle o mostrandole la dignità che si merita. Al contrario, il dibattito la irride forse anche senza volere, ma prendendola ugualmente in giro.
Una prova tangibile di tutto questo è anzitutto l’ultima manifestazione di un cosiddetto dibattito avvenuto in seconda serata sulla sempre pessima trasmissione «Porta a Porta» condotta dall’inossidabile Bruno Vespa. 
Titolone in grassetto dietro il conduttore della trasmissione: «Il duello: Matteo vs Matteo». 
Seduti l’uno di fronte l’altro c’erano i due Senatori della Repubblica Matteo Salvini e Matteo Renzi, leader delle loro formazioni politiche l’una sulla cresta dell’onda mediatico-elettorale, l’altra nascente. Matteo contro Matteo rimanda ad un’idea di scontro, prima ancora che ad un incontro: ci sono due persone che si contrappongono e lo fanno senza esclusione di colpi, altrimenti la puntata non si sarebbe intitolata “il duello” ma piuttosto “il confronto” o “il dibattito”. Porre un esponente contro l’altro significa trasporre sul piano dialettico una differenza di posizioni e di risposte alle questioni d’attualità e/o storiche, poste dal conduttore per orientare il dibattito.
Si potrebbe, certo, in questa sede affermare sommessamente come tale confronto e dibattito sostanzialmente non è in quanto posto su basi del tutto franabili, come avrebbe detto un timorato Aldo Baglio in «Così e la vita» mentre scalava una roccia per l’appunto franabile (e non friabile dato che frana «non è che fria»): il dibattito è tale se ci sono posizioni contrapposte riguardo una visione del mondo del tutto opposta a cui fare riferimento. Qualora, per assurdo, uno dei due fosse stato contrario all’economia di mercato (alias: il capitalismo) allora sì poteva essere utile chiamare ‘dibattito’ un incontro siffatto. Dato che i due contendenti trattano delle stesse tematiche con eguale linguaggio, a parte alcuni aggettivi ed espressioni più o meno truculente o fiorentinamente colorite, è sostanzialmente inutile collocare il confronto nell’alveo del ‘dibattito’. Chiamarlo così, al contrario, serve non a chi usufruisce del messaggio ma a chi vuole inviarlo: porre su un piano antitetico due persone che la pensano esattamente allo stesso modo e che, a parte qualche frecciatina e battuta di spirito su qualche tema particolare riguardante l’amministrazione di questo o quel comune politicamente retto dalle rispettive controparti politiche o riguardo questa o quella legge appoggiata da Renzi o da Salvini, aumenta una percezione di scontro dra le due posizioni che - in realtà - è completamente assente.
Chi riceve il messaggio, colpito dall’apparizione della puntata in grassetto “Matteo vs Matteo” e corroborato dalla specifica: “il duello” comprende che le parti in causa sono già in lotta, tuttavia - se l’ascoltatore si prendesse la briga di seguire realmente il dibattito - noterebbe che, al netto di grafiche accattivanti per porre sotto una precisa ottica la puntata televisiva, i due non si oppongono in alcun modo alle idee generali dell’altro. Qualora dovessero accennare a farlo ci troveremmo di fronte ad un gioco delle parti che dura il tempo della trasmissione: la manifestazione di equipollenza politica spesso passa attraverso una fase di supposto scontro o litigio strumentale per poi trovarsi sulle stesse posizioni.
Si dirà: «ma allora i porti aperti/chiusi? Quella è una differenza sostanziale». Tale obiezione si sostanzia già nella domanda: non esiste questione di porti aperti o chiusi in quanto se si dovesse davvero chiudere Genova o Palermo - ad esempio - l’economia italiana franerebbe (e stavolta frana davvero, non fria) in un batter d’occhio. La retorica sulla chiusura o apertura dei porti è una lotta tutta a suon di slogan che non aggiunge nient’altro a quanto già detto.
A proposito di slogan sarebbe da continuare a trattare l’argomento con dovizia di particolari, tuttavia lo scritto è già abbastanza lungo, è bene rimandare le riflessioni sugli slogan ad un altro post.